«Una volta, quando veniva l’estate, andavamo in barca. La si prendeva al ponte, ci si metteva in mutandine, e si arrivava fino ai boschi. Ci stavamo tutto il pomeriggio»
Cesare Pavese | Feria d’agosto
Ho tra le mani una decina di polaroid di un artista che si chiama Bruno Biddau. La serie si intitola Bagnanti.
Se dovessi usare una sola parola per definire la sensazione che provo sarebbe “stupore”. Lo stupore, cito da dizionario, “è quel senso di grande meraviglia, incredulità, disorientamento provocato da qualcosa di inatteso”.
Ecco. Inatteso.
Sì, sto provando una forte sensazione di sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire. È tutto questo non è da me.
Riavvolgiamo un attimo il nastro.
Ho conosciuto Bruno in un pomeriggio caotico d’autunno a una fiera d’arte tra mille opere appese a un muro e un girotondo di persone impegnate nell’atto di intrecciarsi e chiudersi innanzi a esse.
Quel giorno Bruno, pacatamente, come se stesse documentando una cronaca nel suo farsi, mi ha parlato della sua operazione artistica, che si ispirava a un certo Galimberti, che con la sua Fuji adotta una capacità di registrazione immediata dei luoghi, che le modalità promozionali tipiche dei nuove media non gli vanno a genio e che gli strumenti e le tempistiche della comunicazione di oggi andrebbero cambiati.
Bruno, che al primo sguardo non l’avresti mai detto, è un fiume in piena. Ti racconta il suo lavoro fotografico con un entusiasmo fanciullesco capace di suscitare sentimenti di partecipazione e di adesione in chiunque lo ascolti.
Da quel giorno ci siamo annusati a vicenda, l’ho stimolato, coinvolto in una serie di progetti, e lui, come uomo d’altri tempi, una volta fidato, mi ha aperto i suoi cassetti privati. I suoi archivi. La sua memoria. La sua anima.
Tornando a noi.
I lavori meno pop di Bruno sono un gesto smisurato in rapporto allo spazio e al tempo, assimilabile alla pratica dell’invocazione che fa della ripetizione e della formula il modo per esaudire un desiderio, un bisogno o un’attesa.
In questo senso, al di là della richiesta d’attenzione che richiede sempre una fotografia quando viene guardata, le immagini che emergono da queste polaroid raccontano una storia di quotidianità marina, un agosto del nostro tempo, gesti e forme apparentemente banali ma che trasudano, quasi come una preghiera rituale a San Rocco, una materialità percettiva. Nel loro insieme rivendicano una loro coesistenza, come un’unica installazione, una ricettività che procede per gradi e per strati e arriva a formulare una riflessione intorno a un punto critico attraverso gli strumenti dell’arte.
I soggetti ritratti, forzati nel loro specifico artistico, acquisiscono forza svanendo. Nel processo di sviluppo i contorni sfocano ma le figure restano paradossalmente precise e concrete per dettagli e insiemi.
Senso di anonimato e sensazioni di familiarità camminano a braccetto nel tentativo di portare a compimento un cerchio, quasi a voler calcare un percorso destinato a un incontro.
Bruno con i suoi scatti estemporanei invita a un’evasione temporanea dalla “feria d’agosto” che conosciamo, esorcizza quella performance collettiva che metteva in scena un cambiamento geografico-esistenziale ben circoscritto nel tempo.
Bruno non ci riempie gli occhi di bellezze naturali, di faraglioni e borghi storici della nostra Bella Italia.
Tutt’altro.
Bruno ti invita a chiudere gli occhi davanti ai suoi scatti suggerendoti di aprire quelli della tua memoria.
Bruno è come se volesse “destrutturare l’iconicità” di un sistema di comunicazione visiva, portandola all’apice della sua massima parabola espressiva per poi compiere “un atto finale”: quello dell’appropriazione personale.
Rischio che corre con consapevolezza e con maestria ci restituisce un nuovo pensiero: semplicemente sotto forma di opera d’arte.
Claudio Lorenzoni