Ho avuto pochi miti nella mia vita. Da quando ho iniziato a correre, sul podio insieme a Bukowski e Zagrebelski è salito Marco Olmo.
La sua è una vita di riscatto sportivo che va oltre il semplice correre: raccontata in libri e interviste, Marco Olmo è ormai un’icona per gli appassionati. Per noi tapascioni una leggenda vivente della corsa estrema, diventato campione del mondo di Ultra Trail all’età di 60 anni vincendo per due volte consecutive l’UTMB, l’Ultra Trail du Mont Blanc: una delle gare più ardue al mondo, 167 Km attraverso tre nazioni, 21 ore di corsa ininterrotta attorno al massiccio più alto d’Europa.
Le sue prestazioni hanno anche ispirato un documentario, Il Corridore, realizzato dai registi Paolo Casalis e Stefano Scarafia. Attraverso la storia personale di Marco, Il Corridore racconta il mondo della corsa estrema e, più in generale, una storia universale di amore, passione e sofferenza.
Ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con Marco in occasione del progetto This Must Be. Ecco a voi quanto ne è uscito.
Nel progetto scrivo che la ultra maratona è una forma dimostrativa del suicidio. Che rapporto hai con la morte?
La morte è un passaggio. Certo che sapendo di doverla affrontare, più si va avanti più la si teme. Però è l’unica cosa giusta, almeno così dice il detto.
Quanto è importante la sfera mentale durante una lunga corsa?
Io sono convinto che corpo e mente siano un’unica componente.
Mentre si prepara il fisico con allenamenti sempre più lunghi per raggiungere l’obiettivo della gara, la mente si abitua a gestire il corpo con vari pensieri. Poi c’è tutto il resto: alimentarsi, bere, gestire la fatica, calcolare i vari punti che possono essere posti di controllo, colli-villaggi-dune, insomma valutare il percorso già fatto come un conto alla rovescia.
Dopo quanti km si scavalca il muro per entrare nel limbo dell’assenza di pensiero?
Il cervello non deve staccarsi mai. Sarebbe come un’auto senza pilota. Anzi: in corsa ci devono essere la macchina, il pilota e il meccanico. Da soli non si arriva al traguardo.
E a quel punto, come si trasforma l’essere? E la trasformazione, la si avverte o avviene?
Semplicemente non penso.
Un vecchio adagio dice “chi corre solo va veloce, chi corre in compagnia va lontano”. Tu lo hai sfatato: da solo, vai veloce e vai lontano.
La corsa è uno sport individuale, a volte si corre in compagnia, ma in gara preferisco non avere avversari a fianco.
Che rapporto hai con te stesso durante la corsa? A cosa pensi? Parli da solo?
In corsa si è soli contro gli altri, a volte si fanno dei ragionamenti sotto voce su come gestire la gara, se attendere, attaccare o difendere la posizione. Penso all’obiettivo e corro.
Nel progetto si prende in considerazione il potere comunicativo e simbolico del corpo, vissuto soprattutto come attraversamento concreto del paesaggio. Il tuo pensiero?
Io ho sempre corso in natura. Trovarsi a scoprire paesaggi desertici o montani che da giovane non avrei lontanamente immaginato ti porta ad avere un dialogo con te stesso.
Ti racconto questa. Nel 2003, in Mali ho visto i baobab che da ragazzo avevo sentito citare in una canzone di Adriano Celentano. Mi ha reso felice.
Che rapporto hai con il territorio che ti circonda?
Il rapporto col territorio è complesso se ci ragioniamo. Primo esempio: la Marathon des sables. Noi paghiamo una bella cifra. Dopo volo e varie ore di bus (confortevoli), arriviamo al bivacco. Lì inizia l’avventura. Dormiamo in tende berbere, per terra, su dei materassini leggeri e sacchi a pelo.
Cibi liofilizzati e acqua forniti dall’organizzazione. In gara ogni 10-12 km c’è il controllo delle borracce, c’è un’assistenza impeccabile, ogni tanto si vedono dei ragazzini al pascolo con le capre che la bottiglia d’acqua non c’è l’hanno e vicino ai villaggi contadini che lottano per strappare di che vivere. Noi finita la gara risaliamo sul bus, andiamo in albergo, una doccia, cena al ristorante e rientro a casa.
La sensazione è quella di sentirsi dei falsi eroi. I veri eroi sono quelli che sotto il sole del deserto ci stanno non per scelta. Mi sento fortunato a vivere questi territori grazie alla corsa. Quando corro su certi sentieri, in alcune zone impervie penso a coloro che li hanno percorsi per necessità e non per praticare uno sport.
Le montagne, il deserto: quale habitat ti rappresenta di più?
Diciamo che sono un montanaro con la passione per il deserto, poi sono simili e bisogna rispettarli, belli ma severi: mai sfidarli.
Durante una delle tue avventure, hai provato la sensazione dell’invisibilità? Di aver raggiunto lo “stato di grazia”?
Di sorprendermi sì… quando ero passato in testa all’UTMB, avendo iniziato da ultimo non riuscivo a crederci, poi proprio in quel momento ti rendi conto che mancano 30 km al traguardo e devi essere freddo a gestire la situazione e non fare sbagli…la posta è troppo alta.
Mi piace il tuo concetto di corsa come “vendetta”.
Sì! Ho vinto dove non avrei mai immaginato. Avevo letto una massima “un topo che corre anche se vince rimane un topo“. Ecco non cambia nulla. Oggi però posso affermare di “aver pareggiato” i conti anche se c’è ancora tanta strada che mi aspetta.
Se ti chiedessi un cimelio da archiviare nel Museo a Cielo Aperto di Camo cosa mi daresti?
La mia accetta. Ma poi me la restituisci vero?
Claudio Lorenzoni