Come si chiama una piscina libera?
Mare.
Non sono mai stato un grande nuotatore, ma per i nuotatori, mi riferisco a quelli che sbracciano a mare aperto, ho sempre provato stima ed ammirazione.
Presi il brevetto assistente bagnanti più per dovere che per piacere, un paio di stagioni a bordo piscina e nulla più. Il mio senso di acquaticità, oggi lo posso ammettere, è sempre stato più estetico che pratico.
Da ultramaratoneta non mi chiedo cosa spinga qualcuno a nuotare da solo contro ogni prudenza dentro un mare con correnti più o meno prevedibili (il nuotatore di cui parlo è molto simile all’ultrarunner).
La domanda che invece mi pongo è come facciano i nuotatori, dentro quella speciale solitudine liquida, come riescano ad affermare la propria smania di libertà e il desiderio di stare con sé stessi.
Perché tutta questa premessa?
Perché oggi voglio celebrare l’impresa di Roberta, ovvero la sua traversata dello stretto di Messina. Dalla Calabria alla Sicilia. Scilla, Cariddi, miti e leggende.
Il risultato che ha raggiunto è la risposta che forse l’uomo maratoneta che sono non troverà mai.
Sotto l’acqua c’è l’ignoto, sopra l’acqua c’è il respiro, chi nuota sta in mezzo. È un ruolo terribile nel senso buono del termine.
Chi nuota, chi stende le braccia al largo è il respiro che cerca, sia che lo trattenga quando la testa va sotto, sia che lo prenda quando riemerge alla bracciata successiva.
Il respiro che non è più quello che ci consente di campare, ma quello che tiene tutto in equilibrio, che rende lo sforzo sopportabile, giustificabile.
Il respiro di chi nuota è più simile a quello che concede il poeta negli spazi, più brevi, tra un verso e l’altro, quando l’accelerazione è maggiore, più ampia, tra gruppi di strofe.
Chi nuota sta costruendo una storia, sportiva o personale che sia. Nuota per somigliare a un pesce, nuota per abbandonare qualcosa, forse per allontanarsi da sé stesso, quasi come se volesse rinascere in una gigante placenta.
Roberta cara, chiudo parafrasando un verso dedicato ai nuotatori che lessi anni fa e che usai per descrivere l’indole dei corridori.
I nuotatori e gli oppiomani hanno la stessa tendenza a considerarsi degli esseri solitari, remoti, superiori alle menti ottuse e convenzionali. Quando ci raccontano le loro avventure è come se fossero tornati da territori inesplorati. L’acqua, e la strada calpestata, ci ha innalzato a un’esistenza di livello superiore, che non vuol dire migliore, vuol dire forse lontana.
Noi due, io correndo, tu nuotando, prima ancora dell’abbandono, esercitiamo il distacco. Quello buono. Non siamo anime e corpi solitari, ma abbiamo solo deciso (tu con le braccia, io con le gambe) di uscire in qualche modo dalle menti limitate e costrette nei confini del quotidiano.
Che altro aggiungere?
Avanti tutta, sempre.
Tu nuotando.
Io correndo.
Claudio Lorenzoni