«Ma chi te lo fa fare?»
Questa è la domanda che mi sono sentito porre più volte in questi ultimi cinque anni.
La mia risposta è sempre stata la stessa, ovvero: «Perché non farlo?».
Dopo due libri, proselitismo a raffica, innumerevoli tentativi (vani) fatti per spiegare cosa motiva alcune persone a coprire distanze assurde e quasi disumane, arriva in mio aiuto uno studio secondo il quale attraverso la cosiddetta “reversal theory” è possibile provare ciò che lega emozioni e stati motivazionali dell’ultrarunner.
Quello che hanno innanzitutto scoperto è che generalmente gli ultramaratoneti concepiscono diversamente dal resto degli atleti la competizione. Questo non significa che non siano competitivi e che non abbiano stimoli a sfidarsi fra di loro quanto che concepiscono la competizione piuttosto come una gara con se stessi.
Ovviamente sono spinti anche dai tempi, ma data la difficoltà fisica che ciò che fanno comporta, il risultato che spesso cercano è anche “semplicemente” quello di portare a compimento la gara.
Altri fattori motivanti sono: il farlo assieme ad altri, il senso di gruppo che si crea fra i pochi ultrarunner, il beneficio della vita all’aria aperta e una particolare cura per la salute personale.
Molti ultrarunner hanno poi tratti in comune: persistenza, determinazione verso un obiettivo, sicurezza in sé, capacità di motivarsi attraverso il dialogo interiore e una capacità di resistere a stress e fatica fisica fuori dal comune.
Tradotta in parole semplici, questa teoria psicologica spiega la motivazione umana, la personalità e l’esperienza come reazioni a fattori interni o esterni che possono mutare (anche repentinamente) e che possono avere risposte individuali anche inaspettate. In questo senso “reversal” sta a significare un insieme di stati psicologici inaspettati rispetto a determinate condizioni.
Complicato? Pensa allora a come reagisci a un imprevisto o a una brutta notizia: ti innervosisci o ti deprimi? Bene: gli ultrarunner non necessariamente reagiscono come ci si aspetterebbe.
Per concludere.
Posso dire che noi ultrarunner siamo più empatici della media delle persone e inclini a essere più comprensivi di gioie e dolori altrui?
Posso ribadire che le comunità di ultrarunner funzionano come un organismo di cui le parti sono consapevoli di essere elementi di un gruppo che capiscono e di cui “sentono” gli altri membri?
E se tutto questo correre alla fine dei conti fosse anche solo per realizzare importanti imprese all’interno di un gruppo e non dal perseguire obiettivi individuali?
Ps: ma chi te lo fa fare a non correre?
Claudio Lorenzoni
Cover Ph. Davide Fasolo